Sullo sfondo politico-sociale dell’Italia di questi venticinque anni che vanno dal 1943 al 1967, sono andato ad analizzare il tessuto sociale della città di Bari non tralasciando tutti i cambiamenti che la situazione nazionale portò al contesto cittadino e analizzando le dinamiche locali, con un’attenzione particolare a quello che costituisce l’oggetto specifico del mio studio: la criminalità cittadina e i reati penali consumati. Si possono distinguere, all’interno di questo aspetto da me studiato nel venticinquennio che va dal 1943 al 1967, 3 macro-fasi che attraversò la capitale della Puglia: gli anni dell’immediato dopoguerra e della ricostruzione 1943-1950; il decennio degli anni Cinquanta caratterizzato da una maggiore prosperità frutto del boom economico e, di conseguenza, anche da un maggior numero di reati ai danni del patrimonio e della proprietà; gli anni Sessanta, caratterizzati dalle prime timide manifestazioni di malcontento sociale si pensi alle contestazioni ad opera della sinistra anche barese del governo Tambroni. Proprio per rispettare quest’articolazione storica, si è diviso lo studio in 3 capitoli corrispondenti esattamente a queste tre grandi fasi storiche e criminali della città di Bari.
Leggendo e ricapitolando i reati consumati a Bari durante questa disamina, che comprende venticinque anni d’indagine sui crimini perpetrati nel capoluogo pugliese e 64 procedimenti penali, si nota una sostanziale continuità delle tematiche affrontate nelle varie tipologie di reati, con una preponderanza costante dei crimini ai danni del patrimonio e della proprietà, che ammontano a ben 23 procedimenti su 64.
Abbiamo, infatti, reati legati al patrimonio che diventano via via più ingenti grazie alla ricchezza, seppur relativa, che si sviluppa nel contesto cittadino, in un generale miglioramento delle condizioni di vita all’indomani del secondo dopoguerra.
I reati inerenti al contesto familiare sono 11 e ci svelano quanto lungo, annoso e cronico sia il problema del femminicidio recentemente assurto agli onori o, meglio, ai disonori della cronaca.
Troviamo, inoltre, 9 reati contro la persona, che si connotano, talvolta, di dinamiche efferate e violente, che rimangono comunque saltuarie in un contesto tutto sommato tranquillo, come testimonia l’esiguo numero di tali procedimenti rispetto al lungo periodo perso in esame.
Per quanto concerne, invece, i reati di ribellione alla pubblica autorità, che sono 12, nel periodo analizzato nel I capitolo, dal 1943 al 1950, essi sono sostanzialmente legati alle fasi convulse e confuse della guerra e del primissimo dopoguerra – si pensi in particolare a quella che abbiamo definito essere la difficile convivenza con gli occupanti anglo-americani. Infatti, in questi anni, su 4 procedimenti di questa tipologia, ben 3 sono perpetrati ai danni degli Alleati anglo-americani. A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, invece, tali reati si colorano di motivazioni più dichiaratamente politiche, sia per quanto concerne la contestazione al governo Tambroni - l’unico appoggiato, seppur dall’esterno, dai voti missini, cioè della destra post e neofascista – sia per quanto concerne l’appoggio dato, da parte delle organizzazioni di sinistra, agli scioperi degli operai edili a Bari nei primi anni Sessanta. Infine, abbiamo quei reati che sono da ascrivere più specchiatamente al contesto sociale vissuto nella capitale della Puglia, che sono 9, in cui vanno a confluire reati per fame, povertà, miseria, indigenza vera e propria e che tolgono molta valenza al luogo comune che vuole gli anni Cinquanta e Sessanta come anni di florido sviluppo economico in tutta Italia.
In tutta questa rassegna di reati, notiamo quello che possiamo benissimo definire come il grande assente, ossia il crimine organizzato e i reati ad esso collegati. Questa assenza non è affatto ingiustificata, perché semplicemente, nel venticinquennio che va dal ’43 al ’67, la criminalità organizzata in Puglia, che arrivò nella regione solo più tardi, non c’era. La percezione, invece, ricorrente e del tutto erronea, nel pensiero dominante odierno, è che la Puglia fosse avviata, con una sorta di predestinazione dannata, a diventare la quarta regione persa dello Stato italiano, dopo Sicilia, Campania e Calabria.
Nella realtà, invece, “fino alla metà degli Ottanta la criminalità delle varie province pugliesi aveva un profilo piuttosto basso. Era una criminalità non strutturata, ma conformata secondo le caratteristiche della malavita urbana o dei capibastone dei centri rurali. Gli stessi boss saliti agli onori della cronaca nera non erano altro che gregari, senza una propria tradizione, né radicati nei comportamenti della società civile e del territorio” come dice l’esperto di criminalità Nisio Palmieri.
Assodato, quindi, tutto quanto c’è di superficiale, erroneo e contraddittorio nella lettura del fenomeno criminale in Puglia da parte di certa opinione pubblica, c’è da ribadire che non c’era e non c’è nessuna condanna storica che pesa sulla nostra regione e che spesso si è trascurato che la criminalità è stata e viene tuttora “utilizzata proprio in funzione di protezione e consolidamento del sistema stesso” come già Gramsci aveva intuito.
La Puglia di quegli anni, invece, era una Puglia povera ma non mafiosa. Era la terra che l’indimenticabile e inarrivabile Domenico Modugno cantava nella straziante e commovente “Amara terra mia”. Una regione e una terra, quella della provincia barese e di Bari stessa, da cui si scappava, ma per povertà, non per violenza mafiosa ossia per violenza da parte della criminalità organizzata. Per combattere l’ascesa criminale cui abbiamo assistito in questi ultimi decenni: “Occorrerebbe trapiantare nel cuore della città un po’ di malinconia, un po’ di amore per le grandi battaglie del vivere civile, onorando molto più che i maggiorenti quelli che hanno dato la vita e compromesso per la città qualcosa di essenziale”, come dice giustamente il sociologo Franco Cassano.
Proprio perché questo accorato appello, profetico e poetico insieme, non rimanga inascoltato, voglio chiudere questo lavoro sul crimine a Bari dal 1943 al 1967 ricordando un uomo che per la propria terra, ossia il meridione d’Italia, ha compromesso non l’essenziale, ma il vitale, ricordandoci che, come diceva Giovanni Falcone: “la mafia è un fatto umano e, come tutti i fatti umani, ha avuto un inizio e avrà anche una fine. Il nostro compito è abbreviare questa fine”. Mi auguro di aver contribuito, seppur modestamente, con questo mio lavoro, a tale immensa e meritoria opera.